Onorevoli Colleghi! - La sentenza della Corte costituzionale 11 febbraio 1999, n. 26, ha finalmente sollevato la questione dell'insufficiente tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti. La Corte ha infatti ritenuto che il nostro ordinamento penitenziario non presenta meccanismi procedurali di garanzia per le persone private della libertà personale di fronte ad atti dell'amministrazione penitenziaria lesivi dei loro diritti. La lettura del combinato disposto degli articoli 35 e 69 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (ordinamento penitenziario), evidenzia una lacuna di tutela giurisdizionale: l'articolo 35, infatti, prevede la possibilità per il detenuto di presentare reclamo al magistrato di sorveglianza; ma il successivo articolo 69, al comma 6, prevede una procedura giurisdizionalizzata solo per due casi di reclamo, sicuramente non fra i più ricorrenti nella vita detentiva, ossia: a) l'attribuzione della qualifica lavorativa, la mercede e la remunerazione, nonché lo svolgimento delle attività di tirocinio e di lavoro, e le assicurazioni sociali; b) le condizioni di esercizio del potere disciplinare, la costituzione e la competenza dell'organo
a) che la decisione del magistrato è presa de plano, al di fuori cioè di ogni formalità processuale e di ogni contraddittorio;
b) che la decisione di accoglimento del reclamo si risolve in una segnalazione o in una sollecitazione all'amministrazione penitenziaria, senza forza giuridica cogente e senza alcuna specifica stabilità;
c) che avverso la decisione del magistrato di sorveglianza non sono ammessi né ulteriori reclami al tribunale di sorveglianza, né, soprattutto, il ricorso per cassazione.
Da tutto quanto sopra evidenziato emerge, in maniera inequivocabile, che il reclamo di detenuti o internati, ancorché rivolto al magistrato, non si distingue da una semplice doglianza, in assenza del potere dell'interessato di agire in un procedimento con tutte le garanzie necessarie e dovute, in aperto contrasto con quelle invece previste dalla Costituzione in caso di «violazione dei diritti». E ciò in una situazione in cui la persona detenuta vive in una situazione di privazione della libertà personale e di movimento.
Non si può non ricordare, a tale proposito, che - come sancisce l'articolo 64 delle regole penitenziarie europee, di cui alla raccomandazione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa del 12 febbraio 1987 - «la pena detentiva non deve aggravare le sofferenze inerenti ad essa», con espresso riferimento alla «sofferenza» dovuta alla privazione della libertà personale e alla limitazione della libertà di movimento.
La difficile quotidianità della vita in carcere, e le altrettanto complesse esigenze connesse al trattamento che deve essere finalizzato al reinserimento sociale, impongono il riconoscimento dei diritti fondamentali dei detenuti. Il detenuto deve essere considerato soggetto titolare di diritti e di aspettative legittime che egli deve poter tutelare e difendere senza bisogno di mediazioni.
Come sottolineato anche da Giancarlo Zappa, già presidente del tribunale di sorveglianza di Brescia, nella sua relazione al Convegno internazionale promosso dall'associazione Antigone sul tema «L'Ombudsman e la tutela dei diritti umani delle persone private della libertà personale», tenutosi a Padova nel 1997, non poteva non meravigliare che dottrina e giurisprudenza continuassero a negare la natura di diritto alle legittime aspettative del detenuto determinate da atti unilaterali dell'amministrazione penitenziaria, atti sui quali peraltro i TAR si erano da tempo dichiarati incompetenti rispetto alle prerogative della magistratura di sorveglianza. Il diritto alla salute, il diritto alle relazioni affettive, il diritto alla corrispondenza riservata, il diritto alla privacy, il diritto al «trattamento» non possono essere liberamente